“L’ETICA DEL GIORNALISTA TRA LA CARTA STAMPATA E IL WEB” A CURA DEL CARDINALE ANGELO BAGNASCO

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L’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali della CEI – Conferenza Episcopale Italiana fa presente che da oggi giovedì 28 a sabato 30 novembre si svolge a Roma, presso “NH Midas Hotel” di via Aurelia, la XVII Assemblea nazionale elettiva della FISC – Federazione Italiana Settimanali Cattolici.
I lavori sono stati aperti alle ore 17 dalla prolusione del Card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della CEI  sul tema particolarmente interessante “L’etica del giornalista tra la carta stampata e il web”.

Ci è stato chiesto di favorire la diffusione del documento in particolare tra i colleghi che lavorano nel settore giornalistico.

 

1. Premessa: una crisi generalizzata

Viviamo una condizione crisi generalizzata di cui abbiamo percepito da anni alcuni segnali l’arrivo dato che la Chiesa vive a contatto con le persone e ne accompagna la quotidianità. Il lato più eclatante della crisi è senz’altro quello economico: disoccupazione, scivolamento verso la povertà di fasce sempre più ampie della popolazione, precarietà. Ma quella economica non è che la faccia più evidente di una fase storica che ci interpella e ci chiede di ripensare i modi del nostro vivere personale collettivo, rimettendo al centro l’umano.

Anche i giornali, come altri segmenti dell’industria in generale, e di quella culturale nello specifico, sono in crisi da tempo: fa pensare una notizia di non molti giorni fa, e cioè la vendita della sede storica di via Solferino da parte del maggiore quotidiano nazionale. Ed ė veramente un segno, preoccupante, dei tempi.

Da parecchio si sente ripetere che la carta stampata è destinata a scomparire, e diversi cori ne hanno già cantato l’elogio funebre. Ma come in ogni crisi, l’elemento di perdita e il rischio di tracollo sono solo una parte di una vicenda più complessa e ambivalente: di crisi si può morire, o alla crisi si può rinascere a vita nuova. Quel che è certo ė che le cose cambiano. Allora, più che la lamentela per ciò che si va perdendo, ha senso cercare di assumere il cambiamento e orientarlo verso una direzione dotata di senso. Una prospettiva che vale per l’economia in generale, e anche per il giornalismo nello specifico.

La sfida è quella di cogliere l’opportunità di cambiamento, orientandolo verso una crescita di senso, per un settore la cui crisi non é certo in primis economica.

 

2. La crisi: un’occasione per ripensare il senso della professione

Che cos’è una professione? Etimologicamente, è l’esercizio di un’arte nobile; ma il suo significato originario, che è ‘confessare pubblicamente’ e quindi ‘insegnare’, ha a che fare con la dimensione religiosa e, più in generale, con la verità. Una doppia relazione dunque: con la verità che si professa, con coloro a cui ci si rivolge.

Forse quest’arte è diventata meno nobile perché il ‘professionista’ è oggi chi pretende di avere già in sé tutte le qualità che lo rendono tale. È il soggetto che si presenta come capace, dotato delle competenze, del saper fare, del know how. Ormai la definizione di professione tende all’autoreferenzialità, e questo la allontana dal suo senso originario, che è anche la sua missione. Che la professione del giornalista – prima ancora che la vendita dei giornali cartacei -, abbia bisogno di essere ripensata è un dato innegabile. Se infatti perde l’aggancio alla verità, e se smarrisce la responsabilità nei confronti dei suoi lettori, allora anche il giornalista più dotato può produrre danni culturali gravissimi, contribuendo ad aumentare la cacofonia, la frammentazione, il disorientamento e la confusione, nonché la violenza che così spesso si sprigiona nelle situazioni di incertezza e fragilità.

Un certo affanno della professione giornalistica è evidente in molte sue derive, che ormai purtroppo sono più routines che eccezioni: nell’uso strumentale e destabilizzante di notizie non verificate allo scopo di sostenere o danneggiare una parte in causa nell’agone pubblico; nel silenzio calato, allo stesso scopo, sulle notizie che romperebbero pregiudizi e che si ha vantaggio a mantenere; in un uso voyeuristico e acritico del ‘diritto di cronaca’, senza nessuna preoccupazione per le parti in causa (come i parenti delle vittime per esempio) o gli effetti sull’opinione pubblica. O ancora, nella corsa allo scoop che non esita a violare non solo la privacy, ma i tempi e i ritmi di istituzioni che devono anteporre operare discernimento e confronto piuttosto che  sfamare la curiosità spesso indotta del pubblico. In un uso sistematico delle generalizzazioni indebite, e della sineddoche amplificante la parte come essenza del tutto, che rafforza stereotipi e alimenta pregiudizi che spesso non hanno fondamento nella realtà e rendono più difficile e sofferente il nostro vivere insieme. Quando si disconosce il significato del fatto, si finisce col dissolvere il fatto; il misconoscimento del significato tende a riversarsi sul fatto e a dissolverlo. Come annota Papa Francesco nella recente Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium: “’Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa” (n. 53). E si potrebbe continuare. Ma forse una parola ancora va spesa sul linguaggio. Un tempo c’erano i proverbi, che incorporavano la saggezza dell’esperienza, sedimentata in un senso comune condiviso. Ora ci sono gli slogan, espressioni costruite a tavolino per ottenere il massimo dell’effetto comunicativo con il minimo della riflessione: non a caso, la loro matrice è la pubblicità, che mira alla seduzione e non certo a un risveglio di consapevolezza.

      Quello degli slogan ė il linguaggio dei falsi profeti, che Papa Francesco non cessa di invitarci a smascherare: operazione per la quale i giornali troppo poco ci aiutano, contribuendo piuttosto ad alimentare personalismi perlopiù dotati di scarso fondamento. Armi efficaci nella ‘battaglia delle idee’, anzi troppo spesso delle ideologie, gli slogan e i termini ‘inventati’ per definire una situazione nuova non sono mai neutri, ma orientano la comprensione e dunque influiscono sui nostri atteggiamenti: pensiamo solo all’etichetta ‘vu cumprà’ per definire i lavoratori stranieri stagionali, e al tipo di relazione che una definizione come questa favorisce, o ostacola in un mondo ormai plurale.

      I giornalisti dovrebbero essere più consapevoli del fatto che le parole non sono mai termini neutri, ma sono finestre sul mondo che ci fanno vedere tanto di più quanto meno sono ristrette e ipersemplificate. Senza contare, poi, che è molto più facile incollare un’etichetta che staccarla, e quella che ci va di mezzo è la vita delle persone. Operazione ancora più scorretta è prendere a prestito le parole dell’etica e usarle in modo strumentale per coprire ben altre intenzioni, prima tra tutte il mantenere, a beneficio personale e non certo della collettività, una posizione di potere o di privilegio. Una delle parole ultimamente più abusate è ‘responsabilità’: senza tener conto che usare a sproposito, o per mascherare il loro contrario, parole che dovrebbero invece vincolarci l’un l’altro produce non solo una menzogna, ma un effetto nichilistico generalizzato, un progressivo svuotamento della capacità del linguaggio di significare e ospitare una comunicazione autentica. Le parole rischiano di restare gusci vuoti, da riempire con ciò che serve al momento. Lo dice bene un poeta come Auden, certo non tacciabile di moralismo, in un suo breve verso: “Il male senza voce prese a prestito il linguaggio del bene. E lo ridusse a mero rumore” (W.H. Auden).

 

3. La crisi di credibilità del giornalismo

Alla luce di quanto sommariamente evocato, fa riflettere che la categoria dei giornalisti sia ritenuta “poco affidabile” e poco oggettiva dalla metà della popolazione italiana (il 49,8%). Giudizio, peraltro, confermato dagli stessi giornalisti che confessano di essere troppo condizionati dal potere politico ed economico. In effetti, non si può negare che nel nostro Paese si avverta la presenza di proprietà editoriali invadenti e comunque molto più versate alla tutela dei propri interessi che alla qualità dell’informazione. D’altra parte un sistema non può garantire l’indipendenza di giudizio quando è economicamente dipendente da quei poteri che dovrebbe controllare. Ciò pone, peraltro, una questione centrale perché la qualità della comunicazione contribuisce non poco alla salute di un Paese democratico.

Accanto a questi condizionamenti forti che provengono dall’esterno, occorre evidenziare anche possibili condizionamenti interni che inducono il giornalista ad autocensurarsi per non disturbare chi può danneggiarlo o, al contrario, gratificarlo. Con il suo linguaggio diretto e senza fraintesi, Indro Montanelli nel lontano 1989 ha scritto al riguardo: “La deontologia professionale sta racchiusa in gran parte, se non per intero, in questa semplice e difficile parola: onestà. E’ una parola che non evita gli errori: essi fanno parte del nostro lavoro. Perché è un lavoro che nasce dall’immediato e che dà i suoi risultati a tamburo battente. Ma evita le distorsioni maliziose, quando non addirittura malvagie, le furbe strumentalizzazioni, gli asservimenti e le discipline di fazione o di clan di partito. Gli onesti sono refrattari alle opinioni di schieramento – che prescindono da ogni valutazione personale -, alle pressioni autorevoli, alle mobilitazioni ideologiche. Non è che siano indifferenti all’ideologia, e insensibili alla necessità, in determinati momenti, di scegliere con chi o contro chi stare. Ma queste considerazioni non prevalgono mai sulla propria autonomia di giudizio (…) Gli sbagli generosi devono essere riparati, ma non macchiano chi li ha compiuti. Sono gli altri, gli sbagli del servilismo e del carrierismo – che poi sbagli non sono, ma intenzionali stilettate – quelli che sporcano”.

Proprio a partire dalla concretezza della responsabilità personale, è possibile individuare anche oggi le tracce molteplici di un giornalismo che sa resistere alla tentazione del servilismo e del carrierismo,  rendendo così un ‘servizio pubblico’, che accresce la qualità democratica. Ci sono addirittura giornalisti che sacrificano la loro vita, come è accaduto in tutto il mondo per centinaia di essi: uccisi, minacciati, torturati o soggetti ad intimidazioni. Ciò dimostra che si può agire diversamente rispetto ad un quadro che sembra rendere impossibile l’esercizio di un compiuto ruolo sociale.

Il giornalismo cattolico, di cui voi siete espressione, non può esimersi da una seria valutazione del proprio operato mettendo in conto i rischi evocati, ma anche le possibilità di testimonianza sottese. Non vi è dubbio che la caratteristica vicinanza al territorio, che disegna il profilo dei settimanali cattolici, sia una garanzia di concretezza e di attenzione alla gente, e tuttavia occorre rinverdire e rimotivare l’impegno per un giornalismo costruttivo e mai polemico, popolare e mai populista, sempre espressione dell’identità culturale e religiosa del nostro popolo e mai di lobby o di ideologica precomprensione. Se saprete dire una parola di senso, di comprensione, di ascolto e di consolazione davanti alla vita e alle sue vicende liete e tristi, saprete ritrovare la più nobile missione del giornalismo che è quella di dar voce a chi non l’ha, perché la credibilità si fonda sull’integrità, l’affidabilità e la coerenza del giornalista che possono essere definite anche come un’alta forma di fedeltà alla democrazia.

 

4. Come uscire dalla crisi?

 

Quali allora i tratti della professione che la crisi, prima di tutto deontologica, ci sollecita a riscoprire? Nel caso del giornalista, due restano i tratti irrinunciabili: il servizio alla verità e il servizio al pubblico, nella gestione attenta di quel bene comune fondamentale che ė oggi, nella società complessa, l’informazione.

A questo proposito, il giornalista ha, anzitutto, un delicato quanto importante compito di mediazione tra i mondi che descrive; tra questi mondi e chi non potrebbe mai avervi accesso diretto. Ma nondimeno ė importante che si formi un’opinione tra soggetti appartenenti a schieramenti opposti, che tendono a far prevalere la logica dello scontri su quella del dialogo, solo per fare qualche esempio.

Il giornalista non è un demiurgo, un deus ex machina, ma un mediatore, un traduttore, un  facilitatore. Il giornalista cattolico, poi, ha una freccia in più all’arco della sua capacità di mediazione: la libertà. La fede, infatti, non è la ‘luce illusoria, che impedisce all’uomo di coltivare l’audacia del sapere’. Il credere non si oppone al cercare, come ci ha ricordato Papa Francesco nella Lumen Fidei (n. 2). Al contrario: ‘Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta’ (LF 1). In altre parole, l’essere ‘nel mondo, ma non del mondo’ consente al giornalista cattolico una originale prospettiva capace di coniugare la responsabilità e l’impegno appassionato insieme alla libertà dagli interessi di parte, dai luoghi comuni, dal monopensiero che tende continuamente (e sempre più violentemente) a definire i confini del nuovo ‘politically correct’.

Nell’era del web, che offre la possibilità di farsi emittenti oltre che riceventi, ma che proprio per questo moltiplica a dismisura le notizie disponibili rendendo difficile orientamento e discernimento, il compito del giornalista ė quanto mai essenziale. Non per ‘arrivare primo’ nel dare la notizia: in questo, il web ė ormai imbattibile. Ma per ‘arrivare meglio’: identificare le fonti credibili, contestualizzare, interpretare. E il ruolo del giornalista cattolico, che ha a cuore l’umano nella sua integrità e pienezza anziché la difesa strumentale di interessi di parte, ė ancora più essenziale. E deve far sentire la propria voce senza arroganza e insieme convinzione, perché non si avveri la funesta profezia di W. B. Yeats: “I migliori mancano di ogni convinzione mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità”. Coniugare l’appassionata intensità con l’amore per la verità e con la parresìa (il coraggio di dire non ciò che conviene, ma ciò che è vero) che diventa testimonianza, è il compito che spetta da sempre al giornalista cattolico, e oggi più che mai. In  sintesi: difendere la verità della notizia, essere capaci di discernere, giustificare le proprie interpretazioni privilegiando sempre i dati oggettivi rispetto alle proprie idee, e ancora sottrarsi alle pressioni dei poteri forti e insieme coniugare competenza, aggiornamento e creatività, sono tutti compiti che aiutano a descrivere oggi la professione del giornalista, di cui la nostra società ha particolarmente bisogno.

 

5. L’impatto del digitale e la sostenibilità economica

C’è un ultimo aspetto che merita di essere messo a tema, anche per le ricadute che esso produce sul piano della sostenibilità economica delle aziende editoriali. Mi riferisco ovviamente all’evoluzione digitale che comporta non solo una specie di “evoluzione” della specie umana, come attesta l’ultimo Rapporto pubblicato da Censis/Ucsi, ma si ripercuote pesantemente sui costi e sulle necessità del giornalismo cartaceo.

La massiccia diffusione della rete ha certamente portato con sé, oltre a un mutamento del rapporto con la notizia, anche un rinnovato senso del luogo, con conseguenze che si ripercuotono sul concetto di ‘territorio’, così importante e così caro per i nostri settimanali cattolici. C’è oggi il rischio che lo spazio smaterializzato della rete minacci i nostri territori, svuotandoli di quell’intreccio di relazioni dense, laboriosità, impegno che li caratterizza? E’ possibile! La rete non deve rendere il territorio irrilevante, al contrario: deve costituire un’occasione per dilatarne i confini, scongiurare il rischio di derive localistiche, favorire le connessioni con la dimensione nazionale ma anche con quella globale, senza mai rinunciare alla domanda di senso e alla ricerca di verità. Forse oggi il territorio non è più un dato scontato, e deve ripensarsi in uno scenario che ormai, oltre che globale, è anche digitale. Ma questa è una sfida e una grande opportunità. A livello di comunità locale, infatti, possono essere immaginate soluzioni per affrontare la complessità del presente che rende i territori veri laboratori di progettazione sociale ed economica; e la rete consente di dare visibilità a iniziative e soluzioni virtuose che prima sarebbero state difficilmente accessibili. Il locale è il respiro del globale, la sua radice, la sua àncora contro le derive disumanizzanti. E il digitale offre la possibilità di dilatare le condizioni situate della nostra esistenza al di là del ‘qui e ora’.

      Certo, il rapporto tra carta stampata e web va pensato e non può essere dato per acquisito. Occorre vincere delle diffidenze, in parte generazionali ma in parte legate a una percezione del digitale come ‘non reale’. Si tratta, invece, di un’articolazione della nostra realtà, che la arricchisce e non la depaupera se sapremo abitarla e renderla abitabile con lo sguardo originale che la fede ci offre. Ed è per questo che siamo qui oggi.

Accanto alla crisi del cartaceo indotta dalla rete, occorre registrare un altro elemento di cui voi siete particolarmente avvertiti. Già alcuni anni fa ho avuto modo di dire che occorre continuare a “prestare l’attenzione necessaria al comparto comunicativo e televisivo, affinchè le innovazioni avvengano nel rispetto del pluralismo e della vocazione culturale del nostro popolo, a partire dalle esigenze dei singoli territori”. Intendevo dar voce alle preoccupazioni di quanti temono che la crisi economica possa far ridurre prima parzialmente e poi definitivamente i contributi per l’editoria:  il che, insieme alla maggiorazione delle tariffe postali, pone seri interrogativi per la capacità di tenuta di tante realtà editoriali. Il sostegno al pluralismo informativo è una condizione della democrazia che deve ovviamente guardarsi da sperperi e abusi, e tuttavia si rende ancor più necessario in un momento in cui l’afflusso di notizie richiede una maggiora capacità di vaglio critico ed interpretativo. Auspico perciò che si possa riaprire nelle sedi competenti un dialogo costruttivo che non penalizzi proprio quelle realtà piccole che danno voce ai territori dell’intero Paese.

 

6. Alcune scelte da condividere

Avviandomi a concludere, vorrei evidenziare alcune scelte che l’Assemblea della Fisc può far emergere con maggiore precisione e determinazione. Mi limito a enumerare tre passi da fare insieme nei prossimi anni.

Il primo è fare spazio ai giovani e alla loro preparazione professionale. So bene che proprio nei giornali diocesani essi trovano l’opportunità di accostarsi al giornalismo in forme diversificate che vanno dal volontariato allo stato puro a forme diverse di assunzione. Sottolineo, dunque, che l’apertura verso le nuove generazioni è un investimento ineludibile che prepara con lungimiranza il futuro che sta arrivando.

Il secondo è curare la formazione di tutti, sia a livello culturale e professionale che a livello spirituale. Il rapido cambiamento cui è soggetta la comunicazione richiede di non restare imprigionati da logiche e competenze superate e conservare la necessaria duttilità per apprendere i nuovi linguaggi e integrarli dentro le tradizionali forme di comunicazione. La formazione spirituale significa la capacità di tenere insieme le proprie convinzioni dentro l’esercizio della professione, non creando mondi separati o peggio giustapposti, ma nutrendo alla luce dei principi le azioni quotidiane.

Il terzo è sviluppare un rapporto più organico tra la Fisc e l’Ucsi. La possibilità di un dialogo tra giornalisti cattolici che operano sul territorio e l’associazione di giornalisti di ispirazione cristiana, che ha avuto i suoi prodromi ai tempi dell’allora mons. Montini (1940), merita di essere ripresa e approfondita. Di recente è stato elaborato dall’Ucsi un Manifesto per un’etica dell’informazione che può costituire una piattaforma valoriale da condividere e soprattutto da realizzare insieme. Pur nella distinzione, far dialogare insieme giornalisti cattolici che operano in testate diocesane e in quelle laiche del nostro Paese aiuterà a far emergere una presenza di qualità, attenuando in alcuni la sensazione di dover vivere la propria identità religiosa in privato.

Non sono mancati fortunatamente esempi di credenti che hanno trasformato la professione giornalistica in una testimonianza per tutti. Oltre a San Francesco di Sales che è il vostro patrono, vorrei qui citare un giornalista spagnolo che è stato proclamato beato nel 2010. Si tratta di Manuel Lozano Garrido, più conosciuto come Lolo, che visse i tragici tempi della guerra civile spagnola quando essere cristiani significava rischiare la vita. Ciò nonostante, Lolo, potendo contare solo sulla sua macchina da scrivere, non smise mai di raccontare la verità. Ebbe pure una disavventura di salute che lo costrinse a vivere già all’età di 28 anni  su una sedia a rotelle, ma non smise mai di amare la sua professione, producendo migliaia di pagine ispirate alla sua fede. Perché Lolo era un innamorato della vita e non conosceva depressione o tristezza. “Sacramento del dolore”, lo ribattezzerà Frére Roger di Taizè, anch’egli attratto dalla sua fama e dalla sua santità.  Nel suo “decalogo del giornalista” estremamente attuale ed utile, che dovrebbe essere affisso in ogni redazione giornalistica, tra l’altro raccomanda agli operatori della carta stampata di “pagare con la moneta della franchezza”, di “lavorare il pane dell’informazione pulita con il sale dello stile e il lievito dell’eternità” e di non servire “né pasticceria né piatti piccanti, piuttosto il buon boccone della vita pulita e speranzosa”: oltre ad invitare a “tagliare la mano che vuole  imbrattare, perché le macchie nei cervelli sono come quelle ferite che non guariscono mai”. La sua intercessione possa guidare i passi di chi come voi continua oggi la sua affascinate ed esigente vocazione giornalistica.

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